Per raccontare e far conoscere quello che facciamo con il progetto "l'Armadio dei Pigiami" in collaborazione con l'APS Borgo Ticino, ecco l'intervista a Vito Bellino della giornalista Daniela Scherrer.
Si parte con una semplice misurazione della pressione arteriosa. Si arriva dove è praticamente impossibile se operi nella frenesia di una corsia d’ospedale, ossia a creare un rapporto di counseling con l’interlocutore. E’ l’infermieristica del territorio, che a Pavia sta vivendo una esperienza speciale in Borgo Ticino, grazie all’impegno congiunto del presidente di Ains Ruggero Rizzini, della presidente dell’Aps locale Liala Marchetti e della Cooperativa ConVoi, presieduta da Enrica Maiocchi, che mette a disposizione il personale. Si tratta dell’infermiere di quartiere, presente nella sede dell’Aps di via dei Mille ogni settimana, al mercoledì, dalle 15 alle 17.
In quella zona decentrata di Pavia, dove gli anziani avvertono decisamente la mancanza di una sede territoriale dell’Asl, l’infermiere di quartiere bussa alla porta dell’Associazione borghigiana e, tra un ballo e una partita a carte, si mette a disposizione per alcune prestazioni infermieristiche ma, spesso, diventa per gli utenti anche un prezioso interlocutore per un consiglio o semplicemente per una parola di incoraggiamento. Un vero e proprio “counselor”, insomma.
A ricoprire il ruolo adesso è Vito Bellino, 31 anni, infermiere domiciliare in forza alla Cooperativa ConVoi e specializzato con un Master in infermieristica di famiglia.
“Penso che quella sul territorio sia la vera infermieristica –spiega Vito- esercitare la professione tra le quattro mura di un ospedale è infatti molto diverso che farlo tra le pareti di una casa o di un salone”. Entrare in un Aps zeppa di pensionati è stata esperienza nuova anche per Vito.
- Qual è stato il primo impatto? Si ricorda il suo primo giorno in Borgo Ticino, ad ottobre?
“Lo ricordo benissimo perché ero un po’ agitato. Non avevo mai fatto qualcosa di simile, entrare in una comunità di persone è comunque ancora differente rispetto all’infermieristica di famiglia perché non hai di fronte una persona singola o un nucleo familiare, ma tanta gente con specifiche esigenze e che nei mesi precedenti si era già rapportata con altri colleghi”.
- Qual è stato quindi l’approccio?
“Inizialmente sono partito con le misurazioni più semplici, che sono però anche le più desiderate dagli anziani: pressione, frequenza cardiaca, saturazione dell’ossigeno, glicemia… poi però rivedi ogni mercoledì all’incirca le stesse persone e con loro si inizia a costruire un rapporto di counseling. Tra un ballo e l’altro la gente viene da te e misurare la pressione diventa a volte l’occasione per aprirsi con un infermiere e parlare dei propri piccoli bisogni”.
- Che cosa le chiede la gente mentre misura la pressione…
“Un po’ di tutto: qualche delucidazione sulla terapia, come funziona il glucosimetro quando magari hanno appena scoperto di essere diabetici, anche come attivare un nuovo servizio o come prenotare una visita, visto che adesso è molto richiesto l’uso del computer ma gli anziani si trovano in difficoltà con la tecnologia”.
- Le richieste restano confinate all’ambito sanitario o ha l’impressione che l’infermiere diventi anche una sorta di punto di riferimento sotto il profilo umano?
“Certamente alcuni hanno voglia anche di parlare delle loro criticità familiari. Sono tante le persone che vivono da sole e che comprensibilmente desiderano anche un confronto umano. Ecco perché mi piace parlare di counseling”.
- Considera questo un aspetto problematico o arricchente per la sua professione?
“Direi molto arricchente. Il contatto umano con le persone ti permette di sviluppare potenzialità che magari neppure immaginavi di avere. Questa esperienza ad esempio sta migliorando le mie doti comunicative, la capacità di ascoltare e di essere pronto a dare risposte, mi aiuta ad aprirmi maggiormente con la gente. Per questo è una esperienza che consiglio a tutti gli infermieri. E’ un grande campo d’azione per la propria professionalità ma anche per se stessi”.
- Un’esperienza che potrebbe quindi essere utile anche nel percorso di preparazione alla professione infermieristica?
“Sì, penso che dovrebbe diventare un’esperienza obbligatoria per gli studenti, che spesso si laureano senza avere conoscenza del mondo del territorio ma solo di una corsia. E penso anche che i progetti in elaborazione sia a livello regionale che nazionale dovrebbero tramutarsi in qualcosa di organico affinchè la figura dell’infermiere di famiglia possa quanto prima aggiungersi a quella del medico di famiglia”.
Daniela Scherrer
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