Ho chiesto a Daniela Scherrer, amica, giornalista professionista e amante della scrittura, di regalarci un racconto breve partendo da una parola: BARACCOPOLI.
Buona lettura.
"Ricordava poco o nulla di quel giorno di agosto. Solo lo sguardo fugace di sua madre mentre lo stava mettendo tra le braccia di una donna dalla pelle bianca come il latte e dai capelli giallo sole. Aveva solo tre anni e i suoi occhi erano ancora troppo giovani e ingenui per capire che sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto la mamma. Quella vera. Perché da quel giorno sarebbe stata la donna bianca a chiamarlo figlio. Carlitos aveva passato notti intere a frugare nella sua mente per cercare altri ricordi. Mesi, forse anni in cui quando andava a dormire riviveva quell’intreccio di sguardi e braccia femminili che avevano segnato per sempre la sua vita. Senza che egli avesse mai potuto dire qualcosa. Due donne che avevano deciso al suo posto. Così pensava. Solo una parola era rimasta ben impressa nella sua mente di bambino. Baraccopoli. La donna bianca l’aveva pronunciata più e più volte mentre parlava forte con la sua mamma nera. Sembrava quasi una sorta di “parola magica” per giustificare l’addio. Di questo ne era convinto Carlitos, anche se non sapeva che cosa volesse dire. Ma il suo cuore di bambino, in qualche modo, aveva percepito che la mamma non si sarebbe mai separata da lui se quella parola non fosse rimbalzata con prepotenza tra le lamiere della sua casa e di tutte le altre ammassate e sovrapposte alla sua. Aveva giurato a se stesso che avrebbe studiato per arrivare un giorno a capire il significato della parola “baraccopoli”.
Dei giorni successivi alla sua partenza aveva ricordi molto confusi. Le carezze e i sorrisi della donna bianca, dolci e gentili ma in cui non riusciva a trovare l’affetto della mamma. Poi il lungo viaggio, in auto e in aereo, per arrivare a quella che sarebbe diventata la sua nuova casa. E ancora la febbre, i dottori, la stanchezza, quel senso di novità che stava in mezzo tra paura e scoperta.
Ma la vita, anche per Carlitos, aveva fatto il suo corso. La donna bianca era diventata sempre meno straniera e più madre. Anche perché –gli era stato detto- la mamma nera non lo aveva voluto, aveva cercato di disfarsene senza pietà e per fortuna la bella e brava signora bianca lo aveva salvato dalla morte. Con lei mangiava cose buone, si divertiva, aveva tanti giochi. Scopriva un mondo così diverso dalla polvere che aveva respirato e mangiato nei primi tre anni di vita. E quel mondo gli piaceva. Anche se forse non del tutto. Ogni volta che ripensava agli occhi di quella donna nera un velo di tristezza si impossessava di lui. La donna che lo guardava dolcemente mentre giocava coi rami dell’albero, con le formiche della terra, con le nuvole che vedeva rincorrersi nel cielo. Aveva solo tre anni, troppo pochi per capire il mondo ma abbastanza per sentirsi libero anche in una baraccopoli, laddove il niente diventa tutto, se condito con la fantasia di un bambino.
Carlitos intanto cresceva, si era fatto un bambino spigliato e intraprendente. A scuola era bravo. Non proprio il primo della classe, ma quasi. Non studiava tanto. Ma ascoltava tutto- Faceva domande e, se era il caso, teneva testa alle insegnanti. Finchà un giorno, studiando i contrasti tra ricchi e poveri, si parlò di Parigi e della sua “banlieue”: un tentativo di integrazione fallito miseramente e ridotto a ghetto della capitale francese. “E’ poco più di una bidonville –spiegò l’insegnante- quella che in Italia chiamiamo baraccopoli”.
Carlitos sentì il sangue gelarsi nelle vene. Da quanto tempo cercava il significato di quella parola ed ora, da dietro una cattedra, una voce come uno schiaffo gli aveva sbattuto in faccia la verità. “Città della spazzatura, delle baracche…”, la voce dell’insegnante si allontanava sempre di più e nella mente di Carlitos picchiava forte il rimbombo della parola pronunciata dalla sua mamma bianca. “Baraccopoli”, poi ancora “baraccopoli” e tante volte ancora “baraccopoli” mentre per l’ennesima volta si consumava nella testa e nel cuore del ragazzo lo scambio di braccia tra due donne.
Dunque era quella la colpa della sua mamma nera? Costringerlo a crescere in una baracca, in una città della spazzatura… per questo allora lo avevano portato via dalle sue lamiere ingarbugliate, ma anche dalle formiche, dalle nuvole e dalla sua libertà? Questa la risposta a una domanda che rimbalzava da anni tra mente e cuore senza dargli pace. La verità si era palesata a lui grazie a una parola: baraccopoli. Carlitos tornò a casa ed entrando in cucina affrontò la madre bianca: “Dimmi. Perché quel giorno mi hai strappato dalle braccia della mia madre nera? Perché non volevi che crescessi tra la polvere? Io amavo quella baraccopoli. E mamma amava me. Per questo mi ha dato a te, vero? L’avevi convinta che sarei stato meglio altrove”.
La donna bianca rimase pietrificata. In un istante comprese quello che per anni le era rimasto oscuro, accecata dal suo egoismo e dall’ansia di soddisfare la voglia di maternità. Non seppe fare altro che prendere la mano di Carlitos mentre due lacrime le rigavano il volto. Non aveva parole per spiegare.
Ma proprio in quel silenzio si compì la straordinaria maturazione del ragazzo. Carlitos riuscì a spegnere la rabbia e a comprendere che anche il gesto della madre bianca –seppur sbagliato- era stato solo amore nei suoi confronti.
Baraccopoli…. Laddove si consuma l’estrema povertà… Ma da quel giorno ogni volta che sentiva quella parola a Carlitos un angolo del cuore sorrideva. Là dove stava il ricordo del gesto d’amore di entrambe le sue mamme.
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